Alvin Lee, le mani, i gruppi, la leggenda
Di Tom MacIntosh
Forse Alvin Lee
non era così conosciuto come suoi compatrioti Eric Clapton, Jimmy Page e Jeff Beck, e spesso venne confuso
con Albert Lee, ma il suo stile di veloci raffiche con la sua Gibson ES-335 certamente attirò l'attenzione, e lo
fece diventare leggenda di diritto.
Nato Graham Anthony
Barnes (19 dicembre 1944 - 6 marzo 2013) a Nottingham, in Inghilterra,
iniziò a suonare la chitarra a 13 anni, e due anni dopo fomrò una band chiamata
Jaybirds con il suo amico Leo Lyons al basso. A farlo innamorare
della musica fu il sound di Big Bill
Broonzy e Lonnie Johnson degli album
dal padre, qualcosa che menzionò anni dopo, durante un tour negli Stati Uniti:
"La cosa strana è che andammo a
suonare in ciò che si considerava essere la casa del blues, ma non ne avevano
mai sentito parlare, e non potevo crederci, ‘Big Bill, chi?’ Riciclammo la
musica americana e la chiamarono British Sound".
Ma nei loro primi giorni i Jaybirds suonarono principalmente sulla scena dei club
di Amburgo, in Germania, seguendo le orme dei Beatles, ma non fu fino a quando si
trasferirono a Londra e cambiarono il loro nome in Ten Years After (TYA) quando le cose iniziarono a decollare. Fatto
divertente: la band scelse quel nome per l'irruzione sulla scena di Elvis Presley 10 anni prima (nel 1956);
Lee era un grande fan di Elvis. Infatti, nel 2004, avrebbe registrato In Tennessee con il chitarrista del Re, Scotty Moore, e il suo batterista D.J. Fontana. Le cose iniziarono a
girare quando furono invitati a suonare al Windsor Jazz & Blues Festival
nel 1967. Fu quel festival a portare con sé il primo contratto discografico e la
pubblicazione di un album omonimo che arrivò a una stazione radio di San
Francisco, facendo tremare le orecchie a Bill
Graham, il famoso promotore, che li invitò a suonare negli Stati Uniti. Il
pubblico americano rimase affascinato dal suo modo di suonare e dal materiale
in cui si mescolavano il blues, il rock e lo swing; l’inizio perfetto di una
storia d’amore. Salirono sul "grande palcoscenico" del leggendario
Festival di Woodstock nel 1969, in cui Alvin fece una virtuosa performance con
una versione incredibile di I'm Going
Home che fu ripresa nel famoso film e nel documentario sull'evento. Quel
giorno fissò un nuovo standard, un must per i chitarristi di tutto il mondo.
Ben presto suonarono negli stadi e nelle arene di tutto il mondo e girarono per
gli Stati Uniti 28 volte in 7 anni, più di qualsiasi ogni altra band
britannica.
I loro album più importanti sono Cricklewood Green (il loro quarto lavoro), con Andy Johns come ingegnere del suono – “un disco che scorre piacevolmente dall'inizio alla fine, grazie a trucchi
di studio ed effetti sonori, con strutture delle canzoni su base blues, una
potente sezione ritmica e la veloce chitarra di Alvin Lee” (AllMusic)- e Watt (il loro quinto disco) che
includeva una versione di Sweet Little
Sixteen di Chuck Berry. I loro più grandi
successi furono I'd Love to Change the
World, scritta da Lee, anche se non era così sicuro che fosse il suo stile,
"l’ho odiata perché fu un successo. A
quell’epoca mi ribellai e non la suonai mai dal vivo, per me fu una canzone pop",
e Love Like a Man (10º posto in
classifica nel Regno Unito). Per quanto riguarda gli album, entrarono otto
volte nei Top 40 degli Stati Uniti e altre 12 nella classifica Top 200 di
Billboard.
All'inizio degli anni '70, Lee si stancò dei limiti della
band e andò a cercare altro, altrove. Collaborò con la cantante di gospel
americana Mylon LeFevre e un gruppo
eterogeneo di ospiti tra cui George Harrison, Mick Fleetwood, Steve Winwood e Ron Wood per registrare On the Road to Freedom, che ricevette
grande successo dalla critica e lo portò sulla via del country rock. Formò gli Alvin Lee & Company un anno dopo e suonò
al Rainbow di Londra: un concerto che divenne un doppio album intitolato In Flight. Con un mix entusiasta di
rock, rhythm and blues e un paio di cover di Elvis. Chiamò la band come il suo
"piccolo abito funky", e
l’avrebbe accompagnato in altre due uscite, Pump
Iron e Let it Rock.
Alla fine degli anni 70 formò un trio e lo chiamò, di nuovo,
Ten Years After, con Tom Compton
alla batteria e Mick Hawksworth al
basso. Avrebbero registrato due dischi, Rocket
Fuel e Ride On, e sarebbero
tornati sulla strada ancora una volta nei primi anni '80, riempiendo searte in
Europa e negli Stati Uniti. Poi arrivò un altro cambio di direzione e collaborò
con Steve Gould dei Rarebird e Mick Taylor si unì per un altro
tour.
In totale Mr. Lee ha accumulato più di 20 dischi nella sua
carriera, lanciandone due negli anni ’90, intitolati rispettivamente Zoom e 1994 (I Hear You Rockin), con George Harrison come invitato, la cui
deliziosa chitarra slide si mescola con gli assoli di Lee, soprattutto in The Bluest Blues del 1994, descritta
come la canzone blues più perfetta che sia mai stata registrata.
In generale, rimase fedele alle sue radici, completamente
indipendente e senza influenze esterne. Lo fece a modo suo, e il mondo reagì
con entusiasmo, dimostrando che fu certamente uno dei grandi, e anche se “i
Page” e “i Beck” attirarono più attenzioni da parte del pubblico, tutto andò
come volle lui, mantenendo un profilo basso e un materiale di alta qualità.
Alvin Lee morì il 6 marzo 2013, a seguito di complicazioni
di un'operazione al cuore nel sud della Spagna. In risposta al suo "Mi
piacerebbe cambiare il mondo" (I’d
Love To Change The World), posso solo aggiungere: “l’hai fatto Alvin, lo
hai fatto sicuramente”.
Riposa in pace.