Johnny Winter (1969)

Johnny Winter

Bastano i primi accordi della prima canzone del suo primo disco per capire Johnny Winter. Anche il piccante titolo della canzone I’m Yours and I’m Hers è un marchio di fabbrica, di uno stile inconfondibile di vivere il blues e il rock dal manico di una chitarra. La sua chioma albina ha formato parte del panorama musicale durante più di mezzo secolo, fino alla morte in una stanza di hotel a Zurigo. Aveva 70 anni ed era in giro, in tour.    

Ad essere sinceri, l’album omonimo non fu quello del suo debutto. Un anno prima, nel mitico 1968, aveva già pubblicato The Progressive Blues Experiment, con una casa discografica locale nel suo Texas natale, ma ora si trattava dell’uscita con una multinazionale, del  decollo definitivo e folgorante della sua carriera. Sarebbe poi salito sul palco di Woodstock trasformato già in leggenda.
   



La rivista Rolling Stone si era occupata di dar fede del suo virtuosismo. Adesso doveva solo tirar fuori un buon album di blues. Winter ricorse allo stesso gruppo con cui registrò a Austin, dove ovviamente c’era suo fratello Edgar, una band già rodata a cui non bisognava spiegare nulla e che gli copriva le spalle quando si lanciava in quegli assoli intensi che solo lui sapeva quando sarebbero finiti. Willie Dixon partecipò come invitato speciale per accompagnarlo in Mean Mistreater.
   

Winter
non deluse nessuno e insieme a Good Morning Little School Girl, fissa nel suo repertorio, riscrisse pezzi di B.B. King, Sonny Boy Williamson e Robert Johnson con prepotente autorità. Le dita più rapide del west, era chiaro, e per dimostrare di cosa era capace, nella canzone Dallas, cambiò la chitarra elettrica –una Fender a quell'epoca- per un dobro, quella specie di acustica a prova di pallottole, genuinamente americana. Torna in mente inevitabilmente l’ukulele con il quale, secondo la sua biografia, diede i suoi primi passi musicali dopo essersi dato il clarinetto sui denti.
   



John Dawson Winter III
era senz’altro un maestro della chitarra ingiustamente relegato nella seconda metà della tavola dei 100 migliori assi della storia secondo la stessa rivista che lo portò alla fama. Sicuramente non è che gliene importasse molto. Le sue scale da capogiro portano con sé un’eccitazione ad alto voltaggio, alimentata da una gran carica sensuale. Così diceva quel famoso articolo del Rolling Stone: quel tipo albino era la cosa più scottante che aveva portato il blues dopo Janis Joplin.
   

La Columbia aveva scommesso forte su di lui, con un contratto di lusso per quell’epoca, che diede frutti più che decenti nelle liste dei dischi più venduti. E lo fece nel momento perfetto, in tempo per riservare -pochi mesi dopo averlo lanciato- un posto d’onore nel programma di Woodstock e un posto riservato con il suo nome nell’Olimpo del Rock. Un posto dove si è finalmente seduto a riposare, dopo tanti anni di musica, accordi e assoli.  
   


Photogallery