Un album, una trapunta in patchwork
Di Paul Rigg
Non si capisce se, nel suo 39º album in studio, Neil Young sia impazzito o abbia voluto
accendere un luminoso e fulminante faro di speranza per coloro che si sentono
sopraffatti dall'attuale situazione politica.
Ovviamente, non mancano ripetuti riferimenti a Donald Trump
in un disco che sembra una specie di "trapunta in patchwork": messo
insieme a caso o esageratamente strutturato, dipenderà da quanto l’ascoltatore
sia devoto a questa icona musicale e alla sua volontà di sposare la causa
politica di Young.
Si nota la direzione in cui il vento soffierà fin dall'inizio,
con la traccia di apertura dell'album, Already
Great. Young presenta se stesso e i suoi argomenti in modo drammaticamente
diretto e commovente dalla prima riga "A
proposito, sono canadese e amo gli
Stati Uniti", prima di riprendere uno degli slogan della campagna di
Trump, distorcendolo e restituendoglielo così: "Sei già grande / Sei la terra promessa, la mano d'aiuto; Nessun muro,
nessun odio, nessun fascista U.S.A.". Le chitarre sporche di Young e The Promise of the Real ricordano un
po’ il suo periodo d'oro con i Crazy
Horse. Ci si potrebbe quindi aspettare che sia tornato a imbracciare la sua
leggendaria Gibson Les Paul Goldtop degli anni '50, la "Old Black".
Il messaggio politico ritorna sia nella canzone Fly by Night Deal, dove canta "Il mio sangue bolle", sia nel
seguente pezzo acustico Almost Always,
dove si lamenta: "Sto vivendo con un
presentatore che deve pavoneggiarsi e vantarsi di abbattere le cose che ho care".
Tuttavia, la mente e il messaggio di Young sembrano vagare in quest'ultima
traccia mentre passa dall'accoppiamento di uccelli (sì, esattamente), al dubbio
esistenziale: "Ho qualcosa da dire?
Forse solo una sensazione / che le cose sono destinate a cambiare".
Dopo Stand Tall – nella
quale denuncia ancora i difetti del "boy king"- Young ci porta
improvvisamente in un territorio estremamente strano con Carnival. Questo divertente e piacevolmente assurdo pezzo di otto
minuti, suona come se una specie di gruppo musicale da circo si sia strafatto
di peyote messicano per la prima volta.
The Visitor
viaggia quindi in una direzione completamente diversa con Diggin' a Hole, un blues che suona a Tom Waits e che, anche se dura
poco più di due minuti, fa perdere la cognizione del tempo. Questa traccia si
rivela essere "la calma prima della tempesta" di Children of Destiny, un pezzo registrato insieme a un gran coro e
un'orchestra di 56 elementi, secondo quanto hanno detto.
L'album si chiude con un ritorno a un suono più familiare, tipicamente
Young, con Forever. Questo delicato
inno acustico di più di dieci minuti, lo vede cantare: "La Terra è come una chiesa senza un
predicatore / Le persone devono pregare per se stesse".
I testi di quest'ultima canzone toccano un variegato mix di
temi che, in un certo senso, riflettono l'intero album. Personalmente ritengo
che The Visitor sia un patchwork di
canzoni che sarà un piacere avere addosso per farcisi avvolgere.