Sui passi dei classici
Di Sergio Ariza
Fra le grandi band che nacquero a Seattle all’inizio degli
anni ’90, i Perl Jam erano quelli che avevano più chiaramente le
radici nel rock classico. Può essere che a Vedder,
Gossard, McCready e ad Ament
piacessero i Pixies ma non si notava
tanto come il loro amore per Hendrix,
Kiss, Neil Young o The Who.
Non è strano che di tutti quei gruppi fossero loro a vendere di più, poiché la
loro connessione con i grandi del rock li rendeva, in un certo modo, gli eredi
della grande tradizione del genere. Nonostante il loro disco di debutto avesse
due compositori principali, il chitarrista Stone Gossard e il bassista Jeff
Ament, il suono di quell’album è dovuto al cantante Eddie Vedder e al
chitarrista principale Mike McCready, che imbracciò la sua prima chitarra non
dopo aver ascoltato i Sonic Youth ma
bensì dopo aver visto Stevie Ray Vaughan
dal vivo.
Le origini del disco le troviamo in un terribile giorno di
marzo del 1990, quando il cantante dei Mother
Love Bone (una delle principali band del panorama alternativo di Seattle), Andrew Wood, morì di overdose.
Devastato dalla tragedia, Stone Gossard cominciò a scrivere diverse canzoni per
i fatti suoi e iniziò a vedersi con un altro chitarrista di Seattle, rimasto
orfano del suo gruppo appena sciolto. Era Mike McCready e fu lui a convincere
Gossard a mettersi insieme al prolifico bassista dei Mother Love Bone, Jeff
Ament. Il trio registrò una demo con 5 canzoni scritte da Gossard, Dollar Short, Agytian Crave, Footsteps,
Richard’s E e E Ballad che fecero circolare per trovare un cantante e un
batterista. Nel settembre del 1990 la demo finì nelle mani di Eddie Vedder, un
cantante di San Diego che decise di scrivere i testi delle prime due -che
divennero Alive e Once- e mandare il risultato per posta a
Seattle. Impressionati dal risultato, decisero di chiamarlo per un’audizione.
Strada facendo, scrisse le parole di E
Ballad, ribattezzata Black, e non
ci fu bisogno di null’altro: il posto era suo. Dopo poco si aggiunse Dave Krusen alla batteria e quasi
immediatamente firmarono per la Epic Records. Erano nati i Pearl Jam (anche se
in quel momento si chiamavano ancora Mookie Blaylock).
Le registrazioni di Ten
iniziarono nel marzo del 1991 e finirono a maggio. Alle canzoni della demo se
ne aggiunsero altre composte durante le registrazioni ma solo Porch di Vedder e Release, scritta da tutti i membri del gruppo, non erano opera di
Gossard o Ament. Il primo è quello che ha più protagonismo: sono sue Alive, Even Flow, Once e Black, mentre Ament è un po’ meno
prolifero, ma è sua l’emblematica Jeremy.
McCready aveva una sola canzone cui Vedder mise le parole, Yellow Ledbetter, ma rimase fuori dal disco (fu il lato B di Jeremy). Era il suo tributo a una delle
sue grandi fonti d’ispirazione, Jimi Hendrix, e divenne presto una delle
preferite dai fan. Nonostante questo, sarebbe stato uno degli elementi decisivi
del disco: i suoi assoli sarebbero diventati dei classici. Il miglior esempio
lo troviamo in Alive, trovando
l’ispirazione nell’assolo di Ace Frehley
di She, che a sua volta
riprendeva quello di Robbie Krieger
in 5 to 1 dei Doors. Comunque, alla fine suona come Hendrix. Nel gusto texano di Even Flow troviamo anche il suo tributo
a Stevie Ray Vaughan: non dimentichiamoci che grazie a lui comprò la sua prima
chitarra. Come non poteva essere altrimenti, suona una Stratocaster attaccata a
un amplificatore Marshall.
I testi e la potente voce di Veder sono la ciliegina sulla
torta: il suo strano modo di intonare ha ispirato centinaia di imitatori. I
testi misero il gruppo nel sentiero ‘alternativo’: non parlavano di scale verso
il cielo ma di traumi dell’infanzia, di gente senza casa e di suicidi. Anche se
la loro musica non rappresentò di certo l’invenzione della ruota, le loro
canzoni si sono dimostrate capaci di superare con lode la prova del tempo. Oggi
Alive, Black, Even Flow, Once o Jeremy continuano a suonare come gli inni che sono sempre stati e
che fanno di Ten il disco
fondamentale della discografia di questo grande gruppo.